Mi è stato chiesto di descrivere la XXVI maratona di Firenze, la prima
per chi scrive, è me ne sono assunto l'incarico con piacere.
Ad un giorno di distanza le sensazioni sono molto diverse dall’immediato post gara caratterizzato da una lieve felicità contrapposta, invece, ad un pesante senso di disagio fisico ed un poco di insoddisfazione cronometrica.
È successo che il mio corpo non lo riuscivo più a controllare con la
forza delle intenzioni, ne durante gli ultimi chilometri della gara ne
soprattutto dopo gara nel tentativo disperato di uscire da quella lenta
processione di podisti più o meno devastati dalla fatica che per
ripararsi dal freddo ci si è impacchettati con la stessa carta che si
usa per i regali natalizi, solo che quella dei regali è variopinta
questa di un unico colore, il grigio-argento.
Ho ancora le immagini impresse nella mente in cui lo scenario era tutto grigio dai
muri delle case, alle transenne in alluminio e persino il sole che ci
aveva accompagnato, per gran parte della corsa, era sparito lasciando
il posto alle nuvole, anch'esse grigie. Probabilmente grigio doveva
essere anche il colore del mio cervello in quegli istanti.
Mi riesce difficile raccontare perchè sembra che sia stata per me una brutta esperienza, certo che no! ma è come se l'aver dato tutto, anche qualcosa in più, mi abbia prosciugato completamente, tolto lucidità mentale e quindi incapace di vivere con la "giusta" euforia gli istanti appena dopo l'arrivo.
Nei mesi precedenti mi ero immaginato un
finale differente con la possibilità di vivere in allegria il dopo
corsa, magari condividendo sensazioni e stati d'animo assieme ai
compagni di squadra, agli altri podisti, agli spettatori e perché no
emozionarmi pure. Questo non è avvenuto, ricordo però l'abbraccio liberatorio con Antonio
e l'arancio Medirun della sua maglietta unica nota di colore. Ricordo
inoltre che camminavo ad un ritmo lentissimo probabilmente circa
20min/km con seri problemi di deambulazione con la schiena bloccata,
altra sensazione mai provata, nel tragitto obbligato tra il ritiro
medaglia, prendere il telo termico, dissetarmi al ristoro e
riconsegnare il chip. Parecchi minuti dopo ho ricominciato ad avere
pensieri legati esclusivamente ai problemi fisici che mi attanagliavano
in quel momento in cui l'interesse primario era farmi una doccia calda.
Questo è quanto nell'immediato dopo gara, per ciò che riguarda la maratona in se, proprio per la sua lunghezza, lascia spazio e tempo a chi la compie di vivere una moltitudini di sensazioni ed immagini che
rimangono impresse per sempre nella memoria come ad esempio: il podista
fiorentino a piedi nudi, il Forvezeta dei fò di pe, lo strillone
napoletano con la bandiera, il bagno di folla tra il 27 e 29°km , i
podisti in difficoltà e quelli che camminavano e all'ultimo km la Saab
nera di Alex con davanti il Presystrello, lo Zebrotto Guido e un terzo
pupazzo di cui ora mi sfugge che ci guardavano passare e ci hanno
incitato, ne sono sicuro. Insomma, ognuno in quelle ore di corsa ha
modo di vivere la sua piccola grande impresa, ancora più amplificata se si tratta poi dell'esordio.
Voglio però raccontare almeno gli ultimi km della mia maratona perchè
sono stati, a mio parere, i più coinvolgenti e col senno di poi i più
"interessanti" da analizzare. La parola chiave che voglio utilizzare
per riassumere quegli istanti è volontà,
che è si una parola (dal latino volo: io voglio) ma è anche una dote
umana, facoltà del volere e capacità di volgere le proprie energie al
perseguimento di uno scopo. Probabilmente centra con quello che ho
vissuto dal 36° km circa fino al traguardo perché, in quegli
indefinibili ed annebbiati frangenti, ho capito che non si trattava
più solo di una questione fisica e mentale. Tra le altre cose
mi sembrava, in via del tutto eccezionale, che questi due aspetti
concordavano sulla reale possibilità di porre fine in qualsiasi istante
alla mai fatica (che senso aveva correre tanto e fare così fatica?)
Fortunatamente non ho dato ascolto a questi messaggi e nei successivi
km qualcosa di diverso, metro dopo decametro, si faceva spazio dentro
me. Dapprima attenuando la percezione di alcuni disagi fisici che mi
accompagnavano ormai da diversi km, in secondo luogo non mi interessò
nemmeno più sapere quanto mancasse al termine dell'immane fatica ed il
ritmo sostenuto. Volevo arrivare e basta! Sapevo che era alla
mia portata e nulla mi avrebbe impedito di farlo. Avevo lasciato
oppure ho dovuto lasciare spazio alla volontà per raggiungere quel
obiettivo che tanto mi è costato negli ultimi mesi in termini di
sacrifici a seguire tabelle, tenere ritmi ecc… Rivivo quegli istanti
come se continuare a correre era diventato ormai un'inerzia frutto più del ricordo primitivo ed istintuale ripetuto da sempre che un gesto atletico voluto
e preparato. La sensazione era di correre in maniera pessima, pesante,
di essere più brutto che mai e soprattutto al limite dell'efficacia,
insomma credevo di indossare due tombini invece di un paio di Asics.
La sensazione a distanza di qualche giorno è di aver vissuto un’esperienza piena ed arricchente
sentendo, come del resto si sentono migliaia di maratoneti, di essere
andato oltre il proprio limite, che in se non è una cosa così
straordinaria, ma che solo colui che l’hai compiuta sa cosa ha
significato e quanto vale. Morale della favola è che superato un limite
probabilmente ve ne sarà un altro e poi un altro ancora e via di dis-correndo.
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